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Il diritto alla presenza: contro la moda del “child-free”.

In Italia cresce un trend inquietante: sempre più attività commerciali—dagli stabilimenti balneari ai ristoranti e hotel—scelgono di vietare l’accesso ai bambini o limitarlo a una certa fascia d’età. Lo chiamano “child-free”, lo vendono come scelta di stile, lo giustificano con il desiderio di tranquillità. Ma io mi sono chiesta: è legale vietare l’ingresso a un bambino in un luogo pubblico o aperto al pubblico?

La risposta è chiara: Non è legale.  Non è un diritto!

Cosa dice la legge

L’articolo 187 del Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza (TULPS) recita:

“Salvo quanto dispongono gli articoli 689 e 691 del codice penale, gli esercenti non possono, senza un legittimo motivo, rifiutare le prestazioni del proprio esercizio a chiunque le domandi e ne corrisponda il prezzo.”

Tradotto: L’articolo 187 del Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza stabilisce che un esercente non può rifiutare una prestazione (come l’ingresso in un locale pubblico) senza un legittimo motivo. Ma cosa si intende per “legittimo”?

Un legittimo motivo è una ragione oggettiva, concreta e non arbitraria che giustifica il rifiuto. Non basta dire “preferisco non avere bambini nel mio locale” o “voglio offrire un ambiente tranquillo”. Queste sono preferenze personali, non motivi legittimi. Quindi un genitore che viene respinto da un ristorante perché ha con sé un figlio subisce una discriminazione illegittima. L’esercente può essere soggetto a sanzione amministrativa.  

Il “child-free” si muove in una zona grigia che diventa nera alla luce della legge. Se il divieto si basa su presupposti (“i bambini piangono”, “fanno i capricci”), non è più legittimo. L’esercente può allontanare chi sta effettivamente arrecando danno, non chi potenzialmente potrebbe farlo. Il comportamento concreto è ciò che conta, non la proiezione del fastidio.

Questi divieti ritenuti legittimi non sono altro che  il segno di una società che ha smarrito la morale, il senso sociale e la bussola commerciale. Mi ricordano la scena del film di Benigni, dove il personaggio si imbatte nel cartello che vieta l’ingresso a ebrei e cani. È una provocazione, insomma! Ma la logica è la stessa: escludere una categoria di persone sulla base di una condizione personale è discriminare. Ed a mio parere la legge e gli organi preposti dovrebbero essere più incisivi nell'intervenire e noi  nel denunciare. 

La moda del “child-free” è accettata con leggerezza. Per molti è un “diritto”: “Se vado in un ristorante, voglio stare in santa pace.” Ma la “santa pace” non è un diritto, è un desiderio e si trova altrove, non al ristorante. I diritti non tutelano i desideri personali, ma beni essenziali: istruzione, salute, libertà, dignità, uguaglianza e non sono discriminatori, bensì inclusivi il loro spazio non priva spazi di altrui diritto. 

"I bambini hanno il diritto di essere tali. Di fare rumore. Di giocare. Di esistere. E noi adulti abbiamo il dovere di condividere lo spazio, non di escludere"

Ho guardato le famiglie al mare. Ho visto padri e madri giocare con i figli, costruire castelli di sabbia, ridere insieme. I ragazzi giocavano a palla lontano dagli ombrelloni. Qualche volta la palla arrivava dove non doveva? Sì. Ma si scusavano. Non erano maleducati. Erano bambini.

Nei ristoranti che frequento, non ho mai visto bambini lasciati a se stessi. I genitori li seguono, li intrattengono, li portano fuori se necessario. Alcuni usano il cellulare, sì, ma non per abbandonarli—per concedersi un attimo.  È equilibrio, non negligenza. Eppure questa mia osservazione non collima con le dichiarazioni di alcuni adulti che parlarono di educazione come se loro la conoscessero, come se sapessero quale forchetta utilizzare e che gli spaghetti non si arrotolano nel cucchiaio. Eppure loro sono educati e i figli altrui maleducati! 

La verità è che non siamo più capaci di condividere, rispettare, includere. Cerchiamo il nostro spazio nel “Mio Diritto”, dimenticando che quel luogo appartiene anche a qualcun altro. La mentalità è: “Io sono l’adulto, io valgo più del bambino.” Questa è la cultura della discriminazione. Quella che applica il rispetto a seconda della convenienza. Quella che viola il principio fondamentale della nostra Costituzione:

“Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali." 

L’età è una condizione personale vietare l'ingresso per l'età è discriminare, una netta violazione del nostro amato art. 3 della Costituzione, il più conosciuto.  Escludere un bambino perché si comporta da bambino è discriminare. Escluderlo perché gli adulti non riescono a stare in pace è discriminare.

Il child-free è un atto discriminatorio, non di diritto, e soprattutto è un atto di cui gli adulti non dovrebbero, ma devono vergognarsi, sempre se recuperano nel deserto la bussola morale e il senso civico.

Il “child-free” non è uno stile. È una violazione. È una ferita alla legge, alla coscienza, alla comunità. È il segno di una società che ha smarrito il senso del noi.

E io, da madre, da cittadina, da essere umano, non ci sto. Non ci sto al gioco dell'ipocrisia che esclude i nostri figli e poi si batte il petto, versa lacrime, mangiando in santa pace al ristorante child -free con il cagnolino nel passeggino e commentando l'immagine dei due fratellini piangenti in guerra. Ipocriti! Ignavi!

I bambini non sono rumore, i bambini non sono un fastidio.

Ognuno di noi dovrebbe ricordare che, prima di essere un adulto, è stato un bambino.

Mi dispiace che quel bambino non abbia mai avuto considerazione, mai attenzione. Se ne avesse avuta, oggi non sarebbe un "adulto" triste e solo. Non sarebbe un essere che pensa di essere forte calpestando i più deboli, né un bullo con qualche soldo in più. Peccato!

La dicitura "Child-free" significa "liberi da bambini" o "senza bambini", come se i bambini fossero un ostacolo.

Meglio un "Adult-Free": l'ostacolo siamo noi, il problema siamo noi!

Per chi non ha paura di dire: “Io non ci sto.” Scrivimi, rispondi, dissenti se vuoi. Ma non ignorare. Disobbedisci! fai sentire la tua voce! 

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